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Il Processo Eternit Prescritto: Sentenza Shock per i Familiari delle Vittime

di Alessandra Albanese

21 Novembre 2014

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6300 parti civili, 80 milioni di euro, 650 pagine di arringa difensiva, 18 anni di pena, 5 anni di processo, oltre 3000 vittime, un unico imputato.

Questi, in numeri arrotondati (quasi tutti per difetto) di uno dei processi più discussi degli ultimi anni: quello al magnate svizzero Stephan Schmidheiny, il padre dell’Eternit, ex amministratore delegato della azienda di Casale Monferrato.

Il materiale, adesso fuori produzione, venne bandito agli inizi degli anni ’90, dopo che venne accertata la pericolosità delle polveri di amianto.

Asbestosi, malattie polmonari, versamenti, placche e ispessimenti a danno della pleura, fino al mesotelioma, un tumore raro e fatale, che può avere fino anche a 30 anni di incubazione prima di presentarsi.

Ecco le malattie che si possono contrarre inalando le polveri di amianto, il mesotelioma la più letale.

Raro però in questi 40 anni e passa a Casale Monferrato non lo è stato per niente.

La ditta Eternit venne fondata nel 1907 su un’area di circa 94 mila metri quadri. L’azienda arrivò a impiegare fino a 3500 operai.

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Verso la fine degli anni ’70 però nel reparto di Medicina dell’Ospedale di casale Monferrato si registra un aumento di casi di mesotelioma.

Che l’Eternit fosse materiale inquinante lo si sapeva, ma poco a poco si cominciava a temere anche per l’ambiente e per i cittadini, che pure niente avevano a che fare con la fabbrica.

L’azienda chiuderà definitivamente i battenti nel 1986, e di lì a poco anche l’amianto verrà considerato bandito per legge (L. 257/92).

Oggi a Casale si fanno i conti: fino al 2008 oltre 1200 casi di mesotelioma pleurico, su 37000 abitanti.

Nel 2009, a seguito di indagini del pm Raffaele Guariniello, si apre il processo a Stephan Schmidheiny e Jean Louis Marie Ghislain De Cartier De Marchienne (morto a 91 anni nel 2013), amministratori dell’azienda all’epoca dei fatti.

Disastro doloso e di rimozione volontaria di cautele sui luoghi di lavoro per le malattie.

Loro sapevano, si dirà, e hanno taciuto, anzi nascosto.

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In primo grado i due ottengono una condanna a 16 anni e un risarcimento ai familiari delle vittime e alle parti civili di 80 milioni di euro. Era il 13 febbraio 2012.

Il ricorso si concluderà un anno dopo, il 14 febbraio 2013, con un inasprimento della pena: 18 anni di reclusione e quasi 90 milioni di risarcimento.

Infine la Cassazione, il 19 novembre, storia di oggi, annulla tutto.

Niente di fatto, la pena è prescritta, la condanna non ci sarà, il risarcimento manco per niente.

I fatti avvennero nel giugno 1976, troppo indietro dice la Cassazione, il reato di disastro ambientale è prescritto in 12 anni, cosa vuoi che importino 3000 morti dopo 40 anni quasi. Anche quando l’arco temporale si allargasse fino alla chiusura della fabbrica, ovvero al 1986, stiamo sempre parlando di 30 anni.

E che c’è di più? Che la Corte avrebbe anche condannato Inps e Inail, che avevano chiesto ricorso per non essere state ammesse come parti civili, a pagare le spese legali e i costi a coprire i lavoratori colpiti dalle malattie (280 milioni di euro). Il che sarebbe il minor danno, onestamente.

Il danno maggiore è la credibilità di una giustizia che ha solo applicato la legge, ma non fatto, appunto giustizia (scusate la cacofonia, ma è necessaria, ndr).

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Altra beffa è il disegno di legge, votato a maggioranza alla camera lo scorso febbraio, che doveva legiferare sui delitti contro l’ambiente nel codice penale: sarebbe fermo nelle Commissioni ambiente e giustizia del Senato.

Né i tribunali, né il parlamento a dare dignità a quelle tremila e più vittime della miopia umana, e della malvagità.

Guariniello non si arrende, promette battaglie per gli omicidi dell’amianto, se non è stato possibile perseguire i responsabili per disastro doloso.

Anche se temo, nella Repubblica delle banane, dovremo aspettare a lungo, e magari i numeri delle vittime arriveranno pure a crescere.

 

 



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