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Gravidanza indesiderata: rifiuto e paura della maternità

di Maria Corbisiero

02 Luglio 2010

La “sorpresa” di una gravidanza imprevista può spingere la donna sull’orlo di un precipizio di paure, ansie e continui sensi di colpa.

Le chiamano “gravidanze indesiderate”, “incidenti di percorso” o “i figli dell’errore”.

Credo che, nonostante l’arrivo di un bambino sia un dono divino, un miracolo che si manifesta dentro di noi, non sempre un test positivo scateni nella donna una gioia immensa.

La gravidanza è un evento importante, desiderarlo e cercarlo aiuta ad accettarlo completamente, permette di viverne con gioia ogni aspetto. Diversamente, quando la cicogna arriva d’improvviso, ci si ritrova sedute a guardare un astuccio di plastica con le lineette colorate; lo sguardo si perde nel vuoto mentre la nostra mente vaga nei ricordi cercando l’istante in cui abbiamo sbagliato, come se riportarlo alla memoria servisse a cancellarlo.

Ma cancellarlo non è possibile!

Un piccolo esserino si è già formato dentro di noi e ha iniziato il suo percorso di vita. Ora l’ardua decisione: continuare a farlo crescere o rinunciare a dargli la vita.

Ma vi siete mai chieste cosa succede se la scelta non dipende da noi. Se ci viene imposto di continuare la gravidanza? Nel mio caso è stata una gravidanza “pesante” da accettare. Il mio primo figlio aveva 5 mesi quando rimasi incinta del secondo. In quel momento non volevo assolutamente una seconda gravidanza, per ragioni emotive, finanziare e organizzative. Il solo pensiero di crescere due bambini piccoli da sola mi atterriva, ma neanche riuscivo ad accettare di uccidere quel bambino. Così ho ceduto alle insistenza di mio marito nel tenerlo.

Non posso negare di aver trascorso i nove mesi più angoscianti della mia vita. Non riuscivo a vivere quella gravidanza, a goderne in pieno il suo miracolo, ad assaporarne la magia. Non c’erano sussulti nel cuore quando lo sentivo scalciare, era come un intruso che si faceva spazio nel mio corpo.

Intanto continuavo a versare lacrime per la paura di negare attenzioni al primogenito; per la paura di riaffrontare, a distanza di poco tempo, i dolori del parto, per me tanto traumatici da non essere dimenticati e per l’odio che cresceva verso l’uomo che amavo e ritenevo responsabile della mia situazione.

Poi, all’improvviso, la corsa in ospedale, il bambino che non s’incanalava, le acque verdi e il cesareo d’urgenza, fecero accendere una lampadina dentro di me: “e se non ce la facesse per colpa mia?” questo solo pensiero bastò a far cadere il muro che aveva circondato il mio cuore per nove mesi.

Quell’intruso oggi ha 17 mesi ed è il mio secondo miracolo. Grazie a lui ho scoperto anche le difficoltà dell’essere mamma che mi hanno permesso di crescere e maturare.Non mi ritengo una cattiva madre per aver sofferto nei nove mesi in cui l’ho atteso, solo un normale essere umano fatto di carne, ossa e emozioni.

L’importante è saper rimediare.



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