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Cosa condividono i genitori sui social: traumi e danni per i figli

di Federica Federico

26 Aprile 2019

Cosa condividono i genitori sui social?

Da adulti educatori, comunemente guardiamo alla pratica dei social con riferimento all’uso che ne fanno i bambini e i ragazzi: cerchiamo di monitorare cosa e come postano e il loro tempo di esposizione al cellulare.

 

L’educazione social dei figli vive, però, anche di riflesso, è altrettanto importante valutare cosa condividono i genitori sui social e che uso fanno del telefono. L’atteggiamento attivo del genitore influisce, infatti, sul figlio e influisce persino sulla credibilità del genitore stesso e sul rapporto educatore\bambino o educatore\ragazzo. Anche in questo campo (come in ogni ambito dell’educare) il buon esempio conta fortemente.

 

Cosa condividono i genitori sui social e che peso hanno le loro condivisioni sui figli?

Non tutti i genitori sono consapevoli della responsabilità che hanno in fatto di educazione social dei figli (né della responsabilità pubblica, per alcuni genitori, né di quella privata, per altri) e prevalentemente i genitori non sono preparati all’uso del social visto sotto l’aspetto educativo.

 

Fake news, parolacce, cattivo gusto, ricerca del like come strumento di affermazione che affascina anche gli adulti sono alcune delle trappole della rete in cui mamma e papà cadono prima dei figli.

 

Il peccato originale dell’adulto auto-digitalizzato è quello di seguire la massa:

  • condividere senza un’appropriata ricerca delle fonti, col rischio di cadere nell’ultima fake news;
  • condividere frasi o immagini non appropriate credendo che un post lasci il tempo che trova;
  • usare un linguaggio scorretto;
  • essere aggressivi o poco accoglienti, a volte al limite del bullismo verbale;
  • postare foto dei figli senza avere riguardo di come i figli matureranno il loro concetto di privacy e cosa diventeranno da grandi.
 

Questi sono tutti esempi di atteggiamenti diffusi che più sono praticati più diventano erroneamente “ammessi dalla società“, con la conseguenza di una crescente discrasia tra comunicazione personale e comunicazione social.

 

In un incontro faccia a faccia difficilmente si usa quell’atteggiamento delle labbra tanto diffuso nei selfie contemporanei. In un incontro faccia a faccia difficilmente si offende con la facilità con cui lo si fa in rete. E nemmeno si vedono persone per strada esporre i figli come trofei chiedendo al primo che passa di manifestare un cenno di apprezzamento per la bellezza del bebè.

 

Su Facebook, Instagram e gli altri social un like vale oro e qualsiasi mezzo giustifica il fine della raccolta di policioni, cuoricini, faccine divertenti.

 

Gli adulti rispetto all’uso del social sono spesso promiscui, non animati dallo stesso contegno e controllo che tengono nel quotidiano, liberi e agiscono con un’estrema padronanza dell’immagine e della persona del figlio.

 

La pedagogia insegna che il figlio disegna se stesso (la propria percezione del sé, come il proprio livello di autostima) passando per una valutazione della propria persona filtrata attraverso gli occhi degli adulti (in primis il bambino valuta se stesso considerando quel che mamma e papà manifestano di provare per lui).

 

Il bambino valuta i propri comportamenti attraverso le reazioni comportamentali e affettive dei genitori; crescendo e scoprendo l’identità social che i genitori hanno costruito intorno a Lui\Lei e alla famiglia, questa esistenza web di se stesso visto dagli occhi del genitore peserà fortemente sull’auto-riconoscimento, sul sè sociale e sull’autostima del figlio.

 

Il problema qual è? Molto spesso i bambini, una volta cresciuti (ovvero una volta acquistato un minimo senso critico e di interpretazione del sè sociale, il che avviene intorno ai 9\10 anni), non apprezzano affatto cosa condividono i genitori sui social (e cosa hanno condiviso negli anni).

 

Inoltre il social devia l’immagine del figlio e la ragione di genitorialità dell’adulto: per il fatto stesso che lo scopo comune della condivisione è il Like, non è raro che le immagini postate sui social siano “forzatamente (anche se inconsciamente) rivolte al consenso”. Viste così queste immagini finiscono per non rappresentare pienamente i soggetti coinvolti.

 

I figli cambiano, soprattutto crescono, nel loro processo di crescita rivendicheranno il diritto di non apparire più come bambini. Le loro foto, per esempio imbrattati di pappa, in pannolino, nel bagnato, piagnucoloni o buffi, sono bellissimi ricordi privati, ma postate sui social diventano cristallizzazioni di un essere che il ragazzino ha diritto a non vedere esposto al mondo. E’ così che le immagini social postate dai genitori, forse per soddisfare il proprio ego di mamme e papà, possono trasformarsi per il bambino in immagini oppositive e imbarazzanti.

 

I comportamenti “giovanili, liberi, divertenti” dei genitori sui social, come le foto dai contenuti imbarazzanti, possono diventare elementi peggiorativi del rapporto genitori-bambini\ragazzi.

 

Il bambino che scopra se stesso letteralmente “usato” sul social del genitore, quando era piccolo e incapace di valutare la prpropria identità sociale, può subire un trauma. Può “dissentire” dal genitore nel ritrovare la cronologia pubblica della sua vita raccontata secondo uno schema comunicativo che non è il suo e non gli appartiene. Infatti, ogni genitore racconta il proprio figlio senza pensare che presto diventerà un ragazzino col diritto di auto raccontare se stesso, se lo vorrà.

 

La più pericolosa strumentalizzazione dei figli, soprattutto quelli piccoli, è quella messa in essere dai genitori blogger, che peraltro dovrebbero essere gli elementi più digitalizzati della società.

C’è chi utilizza l’immagine dei figli piccolissimi, quindi prima di una loro comprensione cosciente del sè sociale, solo per promuovere prodotti o brandizzare se stesso.

 

Ma poi che accade nella mente del figlio quando, acquisito un certo livello di coscienza, scopre cosa condividono i genitori sui social?

Il figlio si scopre improvvisamente soggetto di una vita social che non immaginava di aver vissuto, con l’espressione di gusti, pensieri, ambizioni che non sono sue ma della mamma o del papà.

 

Provocatoriamente non è mancato chi ha parlato, in relazione alla categoria dei blogger, di sfruttamento del lavoro minorile. C’è da dire che in Italia i bolloger e i creatori di contenuto a tema genitorialità sono relativamente orientati all’informazione, spesso si scade in una sorta di The Truman Show dei poveri in cui ogni mamma imita la Ferragni, ovviamente senza riuscire nemmeno lontanamente a toccare le stesse vette di popolarità e commercializzazione di sé.

 

Nella mia esperienza di mamma blogger ho maturato nel tempo questi convincimenti. Ho oscurato il volto dei miei figli sino a quando non sono stati loro stessi a chiedermi di essere parte del mio progetto, verso i 10 anni mi hanno domandato di non essere oscurati e nessuna foto o progettualità di cooperazione tra noi avviene senza discussione, valutazione e consenso comune. Non ci sono su VitadaMamma, e quasi per niente nemmeno sul mio Facebook privato, foto dei bambini neonati o piccoli. Perché? Perchè è prevalsa in me l’idea che in loro dovesse maturare prima una consapevole cognizione di sé, una capacità autonoma di fare una prognosi matura sull’uso della loro immagine. Ho sempre pensato che debbono essere le mie muse, non i miei strumenti. Una marea di Like perduti ma la conquista di una buona formazione alla consapevolezza del sè!

 

Un interessante articolo pubblicato su TheAtlantic.com riassume, attraverso la concreta esperienza di alcuni ragazzini (pre-adolescenti), tutti gli spunti di riflessione fin qui esposti.

 

L’articolo riporta i risultati di uno studio condotto dall’Azienda americana della Sicurezza Internet – AVG: dalle risultanze di detto studio emerge che il 92% dei bambini di età inferiore ai 2 anni ha già una propria identità digitale : “I genitori ora plasmano l’identità digitale dei loro figli” e ciò avviene molto prima che questi bimbi abbiano maturato una valida concezione di sè come persone e come persone sociali. Ebbene tutto questo ha un peso specifico e una gravità che vanno considerati con responsabile attenzione.

 

Nello specifico dell’articolo di The Atlantic colpisce il racconto diretto dei ragazzi: Ellen, per esempio, racconta di come sia rimasta traumatizzata quando ha compreso che l’uso di Lei stessa, fatto dalla mamma ,aveva costruito l’immagine di una Ellen-social nata non spontaneamente, non dalla sua reale esperienza e nemmeno dalle sue scelte. Oggi Ellen ha 11 anni, sui social c’è tutta la sua vita di figlia raccontata dalla mamma.

 

Cara, altra protagonista dell’inchiesta, adesso pretende che sua mamma la interpelli prima di pubblicare altro su di Lei in rete.

 

Ellen e Cara rappresentano due esempi tipo di reazioni, razionali e mature, di figli comuni dinnanzi alla scoperta di cosa condividono i genitori su Facebook e sui social. La loro esperienza dimostra l’approssimazione con cui gli adulti adoperano la rete e il pressante bisogno di una formazione digitale degli adulti stessi.



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