La mamma di Fabrizio Corona parla pubblicamente della depressione del figlio e per lui chiede clemenza: “Io ho sessant’anni ma me ne sento molti di più, e ai giudici che dovranno decidere di questo mio ragazzo dico: non è un delinquente. Non condannatelo come fosse un assassino: dieci anni, in Italia, non li prendono nemmeno quelli“.
La mamma è sempre la mamma. Le madri sono cavalieri senza peccato né paura che indomiti difendono il loro bene più prezioso: i figli.
Spesso, tuttavia, il ruolo di schermo di cui una mamma si fa carico, per quanto assunto in buonissima fede, diviene non proficuo, non funzionale alla crescita del figlio e neanche convincente.
Sarebbe opportuno che ogni genitore si sforzasse di “dosare le proprie forze e di considerare l’opportunità del proprio agire”.
La capacità di “dosare le proprie forze e considerare l’opportunità del proprio agire” non è un talento o un’attitudine è un atteggiamento che andrebbe applicato o acquisito da ogni individuo ed è una norma di buon vivere che dovrebbe persino rappresentare un insegnamento da trasmettere ai figli.
Invece troppo spesso non si educano i bambini ed i ragazzi al rispetto dei limiti. La vita sociale, la considerazione degli altri individui del mondo, il rispetto e la stima verso se stessi pretendono di fatto la metabolizzazione e la comprensione di un complesso di regole sociali che richiamano e\o impongono dei comportamenti civili.
La “legge” non è un concetto astratto, essa rappresenta lo strumento di affermazione delle regole sociali, segna il confine dell’illecito e determina oggettivamente ciò che è non ammesso né ammissibile.
Chi viola la legge, dopo regolare processo, deve essere punito. La pena, da comminarsi come conseguenza del reato, in teoria dovrebbe essere commisurata alla violazione perpetrata e dovrebbe risultare proporzionale alla lesione dell’ordine sociale generata dalla violazione (ovvero dal comportamento avverso ed opposto alla legge).
“Chi sbaglia paga e i cocci sono i suoi”, il reo deve cioè assumersi le responsabilità del suo comportamento. In questo senso un imputato all’interno di un processo non dovrebbe dimostrare la sua innocenza morale, la propria fragilità o il proprio buon cuore, dovrebbe, piuttosto, puntare a sostenere la correttezza dell’agire attestando una oggettiva innocenza. È innocente chi non ha agito contra legge mentre è colpevole chi lo ha fatto.
Sempre più spesso si assiste ad una “umanizzazione” della colpevolezza volta a giustificare i misfatti umani sulla base di debolezze insostenibili, inarrestabili ed incontrollabili.
Il corrotto cede per la stessa brama di danaro che ispira il corruttore, l’uomo che sfrutta sessualmente le donne è malato e non cattivo, l’assassino contemporaneo è sempre piegato da un mal di vivere che da carnefice lo trasforma in vittima (vittima della crisi economica o occupazionale, della gelosia o della sua stessa violenza). Il risultato è che i reati e le vittime che li hanno subiti vengono dimenticati mentre i rei continuano a far parlare di sé.
Questa volta il racconto mesto e grigio della vita vista da dietro le sbarre lo fa la mamma di Fabrizio Corona. In un’intervista rilasciata a Gente la donna porta a conoscenza dell’opinione pubblica la depressione del figlio manifestatasi durante la sua detenzione, racconta che la pena detentiva lo avrebbe “portato sulla cattiva strada” rendendogli possibili incontri non proficui e contatti con gente da cui si sarebbe fatto influenzare e trascinare. “Dietro le sbarre è uscito di senno e ha ceduto a pessime compagnie che poi lo hanno trascinato in un vortice di reati. Ricordo bene che gli mandai uno psichiatra in prigione: quel medico disse da subito che mio figlio aveva una patologia ben importante” – dice mamma Gabriella.
“Il suo disturbo, mi ha spiegato lo psichiatra, si chiama depressione monopolare: nel cervello di Fabrizio mancano alcune sostanze che ora sta assumendo con le medicine, sostanze che riequilibrano i neurotrasmettori e anche gli ormoni. È un percorso che sta seguendo e che mi sembra che funzioni: ma se torma in carcere cosa facciamo? Ripiombiamo nell’incubo, nel terrore, in un ambiente che per la sua psiche, come per quella di chiunque non sia un vero delinquente, è troppo traumatizzante“.
E conclude asserendo: “Io ho sessant’anni ma me ne sento molti di più, e ai giudici che dovranno decidere di questo mio ragazzo dico: non è un delinquente. Non condannatelo come fosse un assassino: dieci anni, in Italia, non li prendono nemmeno quelli“.
Senza dubbio la certezza della pena è un problema tipicamente italiano, senza dubbio la società avverte l’esigenza di abbreviare l’iter di molti se non tutti i processi e di punire più severamente alcuni reati. Tuttavia la debolezza che la legge del nostro paese può svelare rispetto al rapporto delitto – pena non deve mai essere usata come giustificazione, presupposto di clemenza o pretesto per “ridimensionare” gli errori commessi.
Il messaggio da lanciare è opposto a quello che personalmente leggo nell’intervento della mamma di Corona, ritengo – anche da madre – che il principio da sostenere e patrocinare sia in assoluto quello della lealtà, del buon comportamento e del viver civile, nonché della responsabilità. Di fatto l’acquisizione e la metabolizzazione di questi principi dovrebbe aiutare a non vivere contra legem e a non incorrere in incresciose e delicate situazioni.