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Monaci Buddisti Mummificati Vivi: Automummificazione

di Gioela Saga

15 Novembre 2014

automummificazione buddisti

Molte volte si sente parlare di tecniche meditative e trascendentali, l’Oriente può insegnarci molte cose nel rispetto e nella tolleranza ma questa tecnica antica lascia davvero sbalorditi e senza parole.

Unisce infatti proprio la meditazione, elementi di buddismo, taoismo e shintoismo con l’antica tecnica della mummificazione.

Non è la mummificazione come normalmente la pensiamo dopo la morte che possiamo trovare anche in alcune antiche civiltà come quella egizia.

Si tratta di un processo lento iniziato già in vita e portato a compimento fino alla morte.

E’ un’automummificazione consapevole e voluta, frutto di sacrificio e annientamento estremo del proprio essere fisico per trascendere ed illuminare quello spirituale.

Questa pratica risale a più di mille anni fa ed era diffusa in Giappone tra i monaci shingon, alcuni monaci buddisti tantrici.

La corrente shingon del buddismo risale ad un’antica setta giapponese fondata da un uomo di nome Kukai la cui morte avvenuta nel 835 d.C. ha portato allo sviluppo del sokushinbutsu o auto mummificazione.

Si dice che dopo la morte di Kukai, si rilevò come il suo corpo si fosse completamente preservato e conservasse alcuni capelli anche molti anni dopo.

kukai il monaco buddista automummificato

Questo portò altri monaci a seguire i suoi passi ma non fu facile. Per raggiungere lo stato di sokushinbutsu i monaci dovevano sottostare ad un regime rigorosissimo e doloroso per 6 lunghi anni, per preparare i loro corpi.

Prima di tutto i monaci avrebbero dovuto mangiare solo noci, semi, frutta e bacche per 1000 giorni. Durante questo periodo i monaci devono anche allenarsi duramente facendo esercizi estenuanti. L’obiettivo è quello di eliminare tutto il grasso dal corpo.

Per i successivi 1000 giorni i monaci si nutrivano solo di radici e cortecce.

Alla fine di questa seconda fase bevevano un thé a base di erbe velenose che avrebbe causato il vomito, raggiungendo lo scopo di liberarsi di tutti i liquidi e dunque disidratare il corpo. Sarebbe servito anche a preservare il corpo, uccidendo qualsiasi larva o batterio e conservandolo così intatto dopo la morte.

Nella fase finale, dopo 6 anni di agonia preparatoria, il monaco si sarebbe chiuso in una tomba in pietra e avrebbe meditato fino al sopraggiungere della morte. Un piccolo tubo avrebbe pompato ossigeno nel loculo. Il monaco aveva a disposizione una campanella che avrebbe suonato ogni giorno per far sapere all’esterno che era ancora vivo.

Una volta che non si fosse più sentito lo scampanellio quotidiano, il tubo veniva rimosso e la tomba sigillata. Dopo 1000 giorni veniva riaperta per constatare lo stato sokushinbutsu del monaco.

Se lo aveva raggiunto, ciò voleva dire che aveva raggiunto anche lo stato di illuminazione totale del Buddha che gli avrebbe consentito il passaggio spirituale superiore.

Il suo corpo così preservato veniva poi rimosso, messo in un tempio e venerato.

Se invece il monaco non era in stato sokushinbutsu la tomba veniva risigillata e il monaco rispettato per i suoi sforzi ma non venerato.

Si pensa che centinaia di monaci abbiamo cercato di raggiungere questo vertice di mummificazione, una pratica che fu però bandita nel 19° secolo in Giappone.

Si conoscono solo 28 monaci che hanno raggiunto questo obiettivo e i loro corpi possono ancora ora essere “ammirati” in vari templi in Giappone.

Fonte: AncientOrigin

 



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