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Figli disabili: la famiglia di fronte all’handicap

di Diversamente Mamma

28 Maggio 2012

Me lo ricordo come se fosse ieri. Ogni giorno rivivo quell’istante, così breve da sembrare impercettibile ma così profondo da segnarmi per sempre.

Isabella era tra le mani del pediatra, che con fare sicuro la mette seduta e la lascia andare per farla cadere indietro. Nessuna reazione. Isabella non sta bene. Isabella deve essere trasferita. Isabella. Isabella. Isabella.

La presa di coscienza che c’era qualcosa che non andava è stato il punto zero della mia nuova vita, della mia maternità diversa e, a quei tempi, per me inaccettabile.

I primissimi giorni, dopo che mi avevano portato via Isabella, li ricordo con un po’ di nebbia, vedevo mio marito, che faceva la spola tra me e la Terapia Intensiva Neonatale, che mi veniva a trovare con gli occhi stanchi, pallido come uno straccio, ma con me cercava di non fare trapelare nulla sullo stato di salute della nostra bambina.

Io avevo la febbre, e non mi era permesso andare a trovarla, per cui campavo di ciò che Marzio mi “restituiva” delle sue visite. Il fatto è che lui non voleva dirmi come stavano realmente le cose, e io, in verità, non le volevo sapere. Cioè, il fatto che lui me le tenesse nascoste era indice di gravità, ma se io facevo finta di non accorgermene, allora era come se esse non sussistessero… lo so, è un tantino complicato, ma la reazione di un essere umano davanti a un dolore così grande può apparire inspiegabile.

Quando poi sono uscita, passata la febbre, e mi sono trasferita nell’alloggio delle mamme, non potevo più fare finta di nulla. Ho preso in braccio la mia bambina che faceva una nanna artificiale a base di fenobarbitale, e mi sono improvvisamente svegliata.

Uno tsunami emotivo mi ha travolto, ed è proprio quello che non dimenticherò mai. È da allora che non sono più stata quella di prima.

Andavo a letto, alla sera, e piangevo, piangevo, piangevo. Dicevo: “Signore, se lei muore (cosa assolutamente possibile) voglio morire anch’io”. Mi rendevo conto che la mia vita senza Isabella non era degna di essere vissuta.

È questo il miracolo che compiono i figli, sia che nascano sani che malati: fino a pochi giorni prima vivi benissimo senza di loro, ma quando li metti al mondo, quando gli offri la vita, ti accorgi che non puoi più stare senza di loro, e ti chiedi come poteva la tua vita sembrare completa senza di loro.

Io non volevo più vivere. Se vivere significava stare senza la mia topina, no, non ne valeva la pena.

E da allora, se da un lato mi sono rimboccata le maniche, dall’altro ho vestito una sorta di “lutto esistenziale”. In altre parole, sentivo come l’obbligo “morale”, verso Isabella, di tralasciare ogni aspetto della mia vita che poteva essere ritenuto “superfluo” e concentrarmi invece su di lei.

Non facevo nulla per apparire, doccia e igiene quello sì, ma le maglie erano di tre taglie più grandi, e meno forma avevano meglio era, le scarpe dovevano servire solo ed esclusivamente a trasferire comodamente la spesa dal carrello alla macchina e a camminare svelta, quindi il tacco era escluso e la forma irrilevante. Inoltre, il trucco era assolutamente fuori questione.

In realtà, in senso assoluto questo non sarebbe un comportamento rivelatore, ci sono donne che per carattere non curano il loro aspetto esteriore, e stanno bene così, dentro. Ma io prima non ero così. Non sono mai stata una fanatica, ma curavo il mio aspetto, mi truccavo, e avevo una passione smodata per gli accessori.

Le cose non sono cambiate con l’arrivo di Eleonora e di Francesco. Cioè, se da un lato il loro arrivo mi ha trascinato fuori da un baratro tetro e profondissimo, mi sembrava ancora più trascurabile la qualità della mia persona e della mia esistenza, diciamo così, esteriore…

Ma dimenticavo un fatto, sostanziale. Che Isabella non era morta, non aveva rinunciato alla vita. Anzi, si dava un gran da fare per viverla al meglio delle sue possibilità. Inoltre, continuando con questo atteggiamento di lutto inculcavo nei miei figli la stessa tristezza. Come se il fatto che Isabella fosse sopravvissuta, anche se gravemente disabile, non contasse nulla.

Non so cosa sia successo, in realtà non ho nessun aneddoto catartico o rivelatore, nessun avvenimento bergsoniano che posso raccontarvi per spiegare la mia “rinascita” esteriore. Ma ad un certo punto, la distanza tra la mia rinascita interiore e quella esteriore si è fatta insostenibile.

Qualche psicologo potrebbe spiegarlo molto meglio di me, ma io ho dovuto fare tutto da sola, e forse, ho semplicemente capito che, se mia figlia non era morta, se continuava quotidianamente a cantare il suo inno alla vita, io non ero nessuno per troncarle il canto, anzi avrei dovuto unirmi a lei e ai due splendidi fratellini che il destino mi aveva offerto.

Vi ho voluto raccontare questo aspetto del mio essere “diversamente mamma” per due ragioni.

La prima è che io, in questo pezzo della mia vita, mi sono sentita (e in verità sono anche stata lasciata) molto sola, e se tra chi mi legge c’è qualcuno che ha un vissuto simile al mio, magari si sente meno solo. Credo che reagire con una sorta di negazione agli aspetti più (apparentemente) superficiali dell’essere donna sia normale. Ma occorre trovare un appiglio per comprendere in pieno l’importanza dell’esistenza e ricominciare daccapo.

La seconda ragione risiede proprio nell’altra metà del cielo, cioè in coloro che, invece, vivono un lutto così su un amico, un conoscente. Apparentemente certi atteggiamenti possono apparire inspiegabili. Si può fare fatica a capire perché quella nostra amica, collega, vicina di casa, si sia lasciata andare, per così dire, dopo un avvenimento così drammatico. Ma si deve tenere presente che certi dolori sono insopportabili.

Per quanto mi riguarda, posso dire che la mia cicatrice non guarirà mai, non smetterà mai di sanguinare. È solo che in un determinato momento della mia nuova vita ho capito che per aiutare veramente Isabella e accompagnare Eleonora e Francesco all’età adulta attraverso un’infanzia serena dovevo io per prima asciugare il mio cuore dalle lacrime, ingoiare il calice amaro.

Il mio recupero dell’ “aspetto esteriore”, che a voi potrà sembrare superfluo e banale, riflette invece il recupero, da parte mia, di una visione ottimista e soleggiata dell’esistenza.

Ripeto, potrò sembrare superficiale, ma è stato da quel momento che ho veramente cominciato ad accettare la malattia dell’Isabella (intendiamoci, la malattia, Isabella è sempre stata accettata e amata). Ho ricominciato a vivere pienamente. A guardare al domani con più fiducia, a vedere tutte le belle cose che i miei pulcini mi offrono tutti i giorni.

Alla prossima, amiche!

Il 12 marzo 2012 i genitori di Isabella hanno costituito un comitato e aperto un conto corrente per la raccolta di fondi necessari alle costose cure alle quali Isabella deve sottoporsi periodicamente. Tutti possiamo sostenere Isabella. Le donazioni possono essere fatte sul conto IBAN: IT11F0538737120000002057824 intestato a Comitato LA NOSTRA ISABELLA Onlus. (Nota della Redazione)



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