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Affido condiviso e bigenitorialità

di Dott.ssa Federica Federico

05 Giugno 2010

Troppo spesso, nel linguaggio parlato si confonde l’affido condivido e quello congiunto. Non è un banale errore, è, piuttosto, la dimostrazione che in molti non hanno le idee chiare sul nuovo regime di affidamento dei figli. Proviamo a fare chiarezza.
Diciamo subito che l’attuale legge, la n°54\2006, da assoluto rilievo al principio della bigenitorialità.

Che cosa si intende per bigenitorialità? In una massima esemplificazione possiamo definire la bigenitorialità come il “diritto naturale” del bambino a conservare e preservare i rapporti con entrambi i genitori.
In questo senso la legge 54 si è sforzata di garantire al minore la prosecuzione del rapporto filiale con entrambi i genitori, in modo equilibrato e continuato.
Ai sensi della legge vigente l’affido condiviso è l’unica forma di affidamento dei figli.
All’affido “monogenitoriale”, infatti, si ricorre solo in casi eccezionali e per tutelare l’interesse del minore ad una corretta e sana crescita psicofisica.

L’affido condiviso rompe completamente con la consolidata tendenza del passato ad affidare i figli ad un unico genitore, tendenzialmente alla madre.

L’affido monogenitoriale riduceva e sviliva il rapporto tra il figlio e il genitore non affidatario. Ed in linea teorica la legge questo dovrebbe evitarlo. Tuttavia noi donne sappiamo che, nella realtà delle separazioni e dei divorzi, non è così raro che un uomo si allontani eccessivamente anche dai figli. Gli ex mariti spesso non considerano debitamente il fatto che la fine del rapporto di coppia non dovrebbe pregiudicare il rapporto padre – figli.
In verità ciascun genitore nella delicata fase della separazione ha il “dovere” di darsi in modo incondizionato ai figli per tutelarli il più possibile.

È inevitabile che l’assenza o la presenza solo marginale di un genitore crei degli squilibri all’interno della famiglia.

Prima della legge 54 il legislatore provò a garantire al minore il suo “naturale diritto” alla bigenitorialità in diversi modi.
Un primo tentativo fu l’affido alternato ma è rimasto lettera morta perchè si dimostrò subito impraticabile. Come suggerisce la parola stessa pretendeva una alternanza tra i genitori. Questo, nella realtà dei fatti avrebbe prodotto un sistema di vita instabile e quindi controproducente per un armonioso e sereno sviluppo del minore.

Più fortunato fu l’affido così detto congiunto.
Esso, però, ha posto non pochi problemi in tema di patria potestà perché gli ex coniugi ne conservavano la titolarità e dovevano esercitarla congiuntamente.
In poche parole ogni decisione riguardante i figli doveva essere condivisa, quindi frutto di un accordo tra i genitori
. Facile intuire che ciò sia praticamente impossibile; ci basti riflettere sul fatto che la separazione, per sua stessa natura, nasce dalla conflittualità tra coniugi.

Ai sensi della legge 54, il nuovo art. 155, comma 2, c.c., stabilisce che la potestà genitoriale sia esercitata da entrambi i genitori.
Ma, memore delle antiche esperienze, per evitare conflitti e continui ricorsi giudiziari, opera una distinzione tra questioni di ordinaria amministrazione e decisioni “di maggiore interesse” (salute ed istruzione per esempio).

Solo le decisioni straordinarie, quelle appena identificate come di maggiore interesse, pretendono un accordo tra i genitori.

È appena il caso di ricordare che la mamma ed il papà nel loro ruolo di educatori sono sempre chiamati a facilitare la soddisfazione e la realizzazione del figlio. In questo senso devono sempre considerare le capacità e le inclinazioni della prole.

Laddove gli ex coniugi non riescano a risolvere autonomamente qualche disaccordo, pure possibile, faranno ricorso al giudice.

Concludendo, la forma di affidamento della prole disciplinata e preferita dalla legge oggi è l’affido è condiviso.



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