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Il Dramma di una Donna Costretta ad Abortire in un Bagno d’Ospedale

di Alessandra Albanese

12 Marzo 2014

Valentina Magnanti è diventata conosciuta in queste ultime 24 ore a causa delle sue vicissitudini in ambito medico.

Più di un Tg e vari quotidiani infatti si sono interessati al suo caso, e com’è giusto che sia, la vicenda ha suscitato immediatamente scalpore.

Piccola ma forte, 28 anni, sposata con Fabrizio, solo ora si è decisa a raccontare l’inferno che ha vissuto in un ospedale romano, tra l’altro nominato per la sua importanza, nell’ottobre del 2010.

“Ho una malattia genetica trasmissibile rara e terribile, ma in teoria posso avere figli, quindi per me non è previsto l’accesso alla fecondazione assistita, alla diagnosi pre-impianto. A me questa legge ingiusta (la L. 40/2004 sulla fecondazione assistita ndr) concede solo di rimanere incinta e scoprire, come poi è avvenuto, che la bambina che aspettavo era malata, condannata. Lasciandomi libera di scegliere di abortire, al quinto mese: praticamente un parto”, dice in un’intervista a Repubblica.

Lei che aveva sognato una famiglia come tantissime donne.

E così, come preannunciato, Valentina resta incinta, dopo una prima volta andata male per colpa di una gravidanza extrauterina.

Valentina Magnanti e il marito Fabrizio

Solo che anche questa volta il destino sembra non essere clemente con questa giovane coppia, e i dottori diagnosticano a Valentina che il bimbo che porta in grembo è malato. Valentina, d’accordo con Fabrizio, decide di abortire.

Peccato però che la ginecologa dalla quale è seguita è obiettore di coscienza, e non vuole assistere la donna nell’interruzione di gravidanza. Dopo un’affannosa ricerca Valentina si rivolge ad una dottoressa dell’ospedale Sandro Pertini.

Il 27 ottobre 2010 viene ricoverata per l’interruzione di gravidanza, al quinto mese di gestazione.

Comincia la terapia per indurre il parto, e purtroppo i dolori non si fanno attendere, a dispetto di quanto le avevano garantito.

15 interminabili ore, un vero e proprio travaglio, tra dolori fortissimi, conati e svenimenti.

Valentina e Fabrizio sono impreparati, non credevano che sarebbe andata così, e soprattutto, a detta della coppia, nessun medico, né infermiere a confortarli e soccorrerli: solo loro due in una stanza d’ospedale.

Valentina abortisce nel bagno della sua stanza d’ospedale, da sola.

Medici e infermieri, passati da lei solo per controllare le flebo, hanno il cambio turno, la ragazza non trova nessuno nel momento peggiore di questa sua interruzione di gravidanza.

“Già una arriva in ospedale disperata, perché in quel figlio ci hai creduto e sperato per cinque mesi, poi ti mettono ad abortire a fianco delle neo mamme e senti i bambini piangere, uno strazio. In più, mentre ero lì stravolta dal dolore entravano degli attivisti anti aborto con Vangeli in mano e voci minacciose”, racconta con un velo di dispiacere misto a rabbia.

E dopo tre anni, appena la notizia è balzata agli onori delle cronache, anche la risposta dei medici del Pertini non si è fatta aspettare, che hanno dichairato che la signora è stata sempre seguita e ha espulso il feto nella sala di degenza, regolarmente.

Oggi Valentina è riuscita a elaborare questo suo aborto, e dopo un lungo periodo nel quale non ha avuto né voglia né forza di agire legalmente, ha trovato un alleato nell’associazione Luca Coscioni, ed ha fatto ricorso, vincendolo.

Soprattutto, ha insinuato nel tribunale il dubbio sulla costituzionalità di alcuni punti della legge 40, che negano anche a pazienti di malattie genetiche di accedere alla fecondazione assistita, e alla diagnosi pre-impianto, che significa, come nel caso di Valentina, dovere decidere di non tenere un bambino destinato a morte certa solo al quinto mese di gravidanza.

La storia di Valentina è emblematica, non solo perché, come si diceva, adesso qualcuno può dubitare della totale bontà di una legge simile (lo ha fatto un ente abbastanza autorevole).

Ma anche perché, e questa è una riflessione del tutto personale (che, ci tengo a precisare, non deve assolutamente essere interpretata come favorevole tout-court all’aborto), tutti i medici considerino, quando sono ancora universitari, o non strutturati, o quando devono scegliere una specializzazione, che in Italia esiste una Legge, che consente di abortire.

E se uno è obiettore di coscienza, che consideri in tutta coscienza che la sua obiezione (diversamente da quella al servizio di leva, un tempo opposta da tanti giovani) nel “non aiutare una donna ad abortire” si traduce in dolore per le donne che come Valentina hanno avuto un destino infelice.



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