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Il primo giorno di scuola vissuto con il cuore di una mamma

di Mamma Licia

16 Settembre 2010

E’ arrivato. Il tanto atteso temuto primo giorno di scuola è arrivato. Puntuale, ineluttabile, improcrastinabile. Ma non è arrivato per il nostro bimbo, no, è arrivato per noi mamme e per noi nessuno ha pensato all’inserimento.

La notte passa insonne. Mille paure, mille ansie, mille immagini ingolfano il mio cervello che va in tilt.

Sveglia alle 7.00, si entra alle 8.30 ma dobbiamo prepararci. Lo zaino è già pronto con tutto l’occorrente, rivisto mentalmente mille volte durante la notte insonne. Preparo la colazione… e chi ha fame? Ho lo stomaco chiuso, un nodo alla gola. Trattengo le lacrime che vorrebbero sgorgare a fiotti. Non posso farmi vedere piangere, devo essere allegra, devo sorridere. È il primo giorno di scuola!

Macchina fotografica in mano per immortalare uno dei momenti più belli della vita del mio bambino. Nonostante mi tremi la mano riesco a fare la foto. Bene, si parte!

Arriviamo a scuola. Tanti bambini con tante mamme e papà si dirigono come noi all’ingresso. Guardo i visi degli altri genitori. C’è chi si conosce già, c’è chi, come me, è alla sua prima esperienza. Mi distraggo, penso al mio bambino che fra poco giocherà e si divertirà insieme agli altri bimbi ed un’esplosione di gioia scaccia via tutti i timori e le ansie. E’ una festa! Oggi il mio bimbo diventa grande, oggi comincia il suo cammino verso l’indipendenza e l’autonomia. Sì, sì, è pronto per questo importante passaggio… Lui è pronto, ma io lo sono? Ripiombo nello sconforto. Il sole scompare, tutto si annuvola. Non devo piangere, non posso. Sbatto forte le palpebre nel tentativo di asciugare gli occhi, spero che lui non si sia accorto di nulla.

Accompagno il mio bambino in classe e lo affido alla maestra. Da quel momento in poi sarà lei, sì la maestra, e non più solamente io, a prendersi cura di mio figlio, gli insegnerà nuove regole ed a vivere in gruppo, lo difenderà dagli attacchi degli altri bimbi e lo consolerà se piange o si fa male.

E’ arrivato il momento di andare. La maestra mi accompagna alla porta, deve fare un po’ di forza perché io faccio un po’ di resistenza, le sorrido a labbra strette, mi dice che va tutto bene, che se voglio posso aspettare fuori, senza farmi vedere, ma io mi inorgoglisco e dico che non è necessario, che sono reperibile in qualsiasi momento se fosse necessaria la mia presenza, ma che sono sicura non ce ne sarà bisogno. Raccolgo tutte le mie forze – me ne rimangono veramente poche – e mi allontano, dopo aver salutato il mio bimbo.

Percorro velocemente il corridoio; presto, devo uscire da lì, devo fare in fretta. Non vedo più niente, nessuno, voglio solamente scomparire e rinchiudermi dove nessuno possa vedermi. Accelero il passo, inciampo, quasi cado, mi faccio male… sarebbe una buona occasione, penso, per mentire sul tipo di dolore che sta per provocarmi un pianto inarrestabile, ma nessuno ci crederebbe.

Arrivo in macchina, mi chiudo dentro, mi costringo a non voltarmi verso la scuola, accendo la radio per non sentire i pianti che comincio ad udire. No, non è il mio bambino, non è lui che piange, riconoscerei il suo pianto tra mille. Ma non sono neanche gli altri bimbi a piangere… no, non sono loro… sono io che piango. A singhiozzi, e tremo, e sussulto. Non riesco a smettere e non c’è il mio bambino accanto a me ad abbracciarmi e consolarmi. Non c’è lui perché da oggi il mio bimbo è diventato più grande. Sì, lui è più grande, mentre io, improvvisamente e violentemente, sono diventata più piccola.

Ciao, amore mio, adesso vado. Ti vengo a prendere alle 12.30.



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