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Mamma rivede la figlia morta grazie alle realtà virtuale

di Federica Federico

17 Febbraio 2020

Sta facendo scalpore la storia di Jang, la mamma che ha “rincontrato” sua figlia morta grazie alla realtà virtuale. Jang rivede la figlia morta, la piccola Nayeon, avendo idea (ovvero avendo la percezione) di toccarla e di parlare di nuovo, lo fa grazie a una simulazione tecnologica immersiva che la cala in un contesto irreale in cui la bambina è riprodotta (cioè è simulata).

 

mamma rivede la figlia morta

Mentre la mamma rivede la figlia morta, il mondo non osserva altro che la commozione della donna e della sua famiglia.

 

Tutti si fanno travolgere dall’ennesima storia sensazionalista, quasi nessuno esamina i risvolti psicologici e la portata intimamente devastante di questo evento.

 

Attenzione: siamo dinnanzi a qualcosa di estremamente pericoloso e aggressivo, dietro la facile commozione c’è un’altra faccia della medaglia che nessuno vede (o che nessuno vuole mostrare).

 

Ho letto molti articoli sull’accaduto, tutti sintetizzano la storia all’osso e non vanno oltre l’emozione del momento, seguendo, peraltro, una stessa scaletta espositiva:

una piccola bambina, prossima a compiere 7 anni, muore per un imprecisato male incurabile; correva l’anno 2016, la mamma sprofonda nel lutto e non se ne fa una ragione; 4 anni dopo fanno indossare alla donna un visore, dei guanti e “la conducono in paradiso”; immersa in una “realtà ricreata tecnologicamente” la mamma rivede la figlia morta. Emozione e lacrime.

Peccato che le cose non siano così semplici.

 

mamma rivede la figlia morta

Mamma rivede la figlia morta grazie alla realtà virtuale, facciamo alcune premesse di carattere scientifico-psicologico:

 

l’essere umano che soffre un lutto subisce un trauma emotivo, una privazione che coinvolge sensi e sentimenti ed è chiamato a sopravvivere all’assenza.

 

Alcuni di questi traumi sono particolarmente complessi da vivere perché è tremendamente difficile “farsene una ragione“. Per esempio, si dice che la morte di un figlio sia innaturale perché di fatto il genitore in lutto deve adattare la sua sopravvivenza a un’idea a cui la natura umana non lo prepara: infatti la normalità vuole che siano i figli a sopravvivere ai genitori.

 

L’accettazione (per quanto possibile) dell’assenza riesce a bilanciare il confine tra ricordi e immaginazione e preserva l’equilibrio mentale che serve all’uomo per reagire al dolore.

 

Recentemente ho sentito la mamma di Marco Vannini confessare in un’intervista il fatto che qualche volta indossa il giubbotto del figlio per sentirne l’abbraccio. Ebbene questa immaginazione è “sana” perché è fatta del recupero tangibile di percezioni presenti nella memoria – percezioni che sono state reali e hanno costruito la vita di allora e il ricordo di oggi. Questo, nello specifico, è un modo coraggioso di nutrire il ricordo e l’amore, senza alterazioni.

 

Tutta la letteratura scientifica (e qui si potrebbero citare svariati autori giungendo sempre alla stessa conclusione) ammette che le emozioni sono stati interiori capaci di modificare l’uomo nel suo essere e nel suo agire esteriore, ovvero sono condizioni in grado di incidere sulla razione umana a stimolazioni esterne, quindi si potrebbe dire che le emozioni cambiano l’uomo nel rapporto col mondo.

 

Questa precisazione deve riconnettersi a un altro chiarimento essenziale: le emozioni sono sollecitate da sensazioni e la realtà virtuale “immerge” l’individuo in un complesso di percezioni (sensazioni) con ampio, coinvolgente e completo impatto sensoriale. Qui sta la differenza con l’esempio del giubbotto come simulacro di un abbraccio perduto: la mamma in lutto che indossa il giubbotto del figlio recupera la sua sensazione del figlio e le emozioni che nutre in sé come ricordo (emozioni realmente vissute e partecipate dal figlio quando era in vita); viceversa, la mamma che si cala nella realtà virtuale “altera” il ricordo della figlia costruendo su esso una nuova gamma di sensazioni raccolte e vissute in un’esperienza immersiva, in un altro incontro (un incontro nuovo e diverso da ciò che la figlia è stata da viva).

 

La realtà sensoriale e emozionale di questo incontro sarà devastante a incontro finito, ciò perché riaprirà il ciclo dell’elaborazione delle emozioni, della catalogazione e del lutto.

 

Leggendo le pagine web dedicate alla mamma che ha riabbracciato la figlia indossando un visore, ho trovato frasi poco condivisibili, tipo: “Per esaudire il suo desiderio la MBC ha fatto realizzare una simulazione che sfrutta il visore di realtà virtuale HTC Vive Pro e i suoi guanti dotati di feedback aptico, una tecnologia che permette di replicare le sensazioni tattili generate dalle interazioni con l’ambiente circostante con un certo grado di accuratezza.”

 

La mamma, come qualunque mamma in lutto, non desidera rivedere una simulazione di sua figlia che non è la sua bambina, desidererebbe, invece, che la vita non le avesse inferto il più grande dolore possibile, ovvero quello della perdita e del lutto.

 

Questa donna oggi dovrà fare i conti con la metabolizzazione di un secondo lutto, dovrà differenziare i ricordi della sua bimba da quelli di un simulacro costruito tecnologicamente, un inganno a cui non è detto che la mente possa sfuggire (o da cui non è detto che la mente possa liberarsi).

mamma rivede la figlia morta

Mamma rivede la figlia morta: chi ha permesso questo ha ingannato questa donna e sta ingannando chiunque si commuova dinnanzi a un video di cui non conosceremo mai le più intime e profonde implicazioni psicologiche.

 

Mamma rivede la figlia morta, ma sia ben chiaro quella che ha “incontrato” non è sua figlia, perché tutto questo è un pericoloso inganno?

La figlia, animata in 3D, è un modello ricreato sulle immagini di Nayeon fornite dai genitori; i movimenti del simulacro sono stati replicati catturando in digitale i movimenti di una bambina che ha avuto la funzione di “attrice-provino”, quindi i movimenti non sono quelli originali, unici e personali della creatura morta nel 2016.

 

Praticamente la piccola Nayeon “è venuta alla luce virtuale della simulazione” come viene alla luce un qualunque personaggio di un videogame. La differenza è che la mamma è stata indotta, da un tranello della mente e dei sentimenti, a credere di vedere sua figlia.

Adesso la voce camuffata della bimba virtuale si è sovrapposta ai ricordi reali di Nayeon creandone altri, le movenze non singolari e non originali si sono sovrapposte a quelle che la mamma ricordava essere della sua bimba e l’ultima immagine che questa madre ha di sua figlia è recuperata dai pixel di un mondo che non esiste, eppure le è apparso così straordinariamente reale.

 

Quanto ci metterà questa mamma a “dimenticare” dopo questo nuovo addio? L’esperimento è stato oggetto di un documentario televisivo, su Youtube, ne sono stati pubblicati degli spezzoni e l’intera famiglia, compresi i fratelli di Nayeon, hanno assistito all’esperienza immersiva della mamma.

 

Per mia modesta opinione, anche chi ha semplicemente visto ciò che accadeva nella realtà simulata è stato emozionalmente coinvolto restando vittima della medesima falsificazione dei ricordi. La domanda è una sola: tutto questo è giusto ed è un bene oppure non è giusto per niente ed è un male?

 

Su Netflix è possibile vedere una serie dal titolo “Meglio di noi”, al di là della storia base di un robot che incontra una famiglia divenendone praticamente parte affettiva, nella serie vi è una protagonista secondaria: una mamma che ha perduto suo figlio, alla donna viene donato un robot simulacro per coprire il lutto, questo dono si trasforma in una trappola dalla quale questa madre fatica a venire fuori perché vive consolata da questo figlio inumano capace di reazioni limitate e simulate e sempre piccolo.

Peccato che la serie sia una finzione con molte riflessioni sul progresso, mentre la mamma che ha rivisto sua figlia è una donna che ora sta soffrendo, forse più e più di prima.

 



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